così la vendetta governa la politica – Libero Quotidiano

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 Mattarella e Draghi
Pietro Senaldi

Se è vero che la vendetta è un piatto che si consuma freddo, questi cinque giorni da dimissionario congelato potrebbero essere i più gravidi di soddisfazioni per il presidente del Consiglio, Mario Draghi, dei cinquecento e oltre passati a Palazzo Chigi. Il premier si è tolto i sassolini dalle scarpe. Ha approfittato del passo falso dei grillini, che non gli hanno votato la fiducia, pur non facendo venir meno aritmeticamente la maggioranza, per precipitarsi da Mattarella e sfilarsi dalla guida del Paese e ha visto il suo orgoglio subito premiato. Chi gli ha creato i maggiori problemi e ha provato ripetutamente a sgambettarlo è ora nel panico, precipitato in una situazione a metà tra lo sconforto e l’ansia di chi ha perso un padre e la disperazione e la recriminazione di chi è stato abbandonato dalla moglie.

Sono giorni di scenari. L’ex banchiere fa sapere in giro di essere irremovibile nella sua decisione di lasciare, malgrado le insistenze del capo dello Stato perché resti dov’ è, e questo ne aumenta le quotazioni. Il Pd lo supplica, piuttosto indecorosamente, di tornare sui suoi passi, e conta molto sul suo santo al Quirinale, che dai dem proviene, per convincerlo. Pure i grillini si sono pentiti di averlo sfidato. Conte sta mandando ambasciate per essere perdonato. Perfino dal centrodestra, ormai specializzato nel giocare contro se stesso, arrivano flebili segnali di richieste di una sua retromarcia, anche se solo da una minoranza. Non si vede però perché Tremendous Mario dovrebbe ricredersi.

 

 

Ripensarci sarebbe una figuraccia. È vero che perfino Mattarella aveva giurato, e non solo una volta, che non avrebbe concesso repliche, e quindi l’esempio verrebbe dall’alto, ma accettando un bis, anche alle sue condizioni, Draghi dimostrerebbe di avere una parola mutevole, che vale quanto quella di Conte o Di Maio. Se ieri l’altro, andandosene, l’ex governatore della Bce ha dimostrato agli italiani di avere le palle, tornando darebbe la prova che qualcuno nel frattempo ci ha camminato sopra. Quel qualcuno non può essere Letta, tantomeno Conte, e con tutto il rispetto neppure il capo dello Stato. A convincerlo a rimettersi nelle mani dei partiti in procinto di campagna elettorale, e pertanto famelici ed egoisti, nel caso accadesse, sarà stato qualcuno più in alto, appartenente al suo giro internazionale, determine che gravitano due o tre piani sopra la politica italiana. Insomma, deve intervenire una ragion di sovra-Stato.

“SANGUE E ME***” – Finché si naviga più sotto, a livello italiano, si resta nell’ambito non solo della logica ma di quel misto di tigna, rabbia, ambizioni, calcolo, risentimento, affinità elettive e regolamento di conti che governa la politica e spesso ne determina gli eventi decisivi più di ogni altra cosa. E infatti raramente a Palazzo le matasse si sbrogliano nella maniera più logica, che nella fattispecie vorrebbe una conferma da parte del premier, mercoledì, delle sue dimissioni, un breve giro di consultazioni per constatare che non ci sono maggioranze various, lo scioglimento delle Camere e la convocazione del voto anticipato, per inizio ottobre. La politica italiana è «sangue e me***», come disse decenni fa il ministro socialista Rino Formica. Nulla è cambiato, se oggi Di Maio spiega la crisi di governo e il suicidio grillino con «la sete di vendetta di Conte».

 

 

Ma se si apre questo capitolo, ne viene fuori un libro, visto che ci sono certe ferite che non si rimarginano mai e certe promesse mancate che sono un coltello che continua a rigirarsi nello stomaco. Certo Draghi non agisce guidato dagli istinti, ma in questi giorni di riflessione che lo separano da mercoledì prossimo avrà modo di ripensare alla sua storia recente. E si ricorderà che se ne stava bello tranquillo in pensione, a Città della Pieve, candidato in pectore alla successione di Mattarella, quando proprio il capo dello Stato, regista Renzi e d’accordo con il Pd, Berlusconi e Salvini, lo disturbò per giubilare il disastroso governo Conte-Travaglio-Arcuri e salvare l’Italia dal Covid e dal fallimento. Come esca, la rassicurazione che lo attendeva il Quirinale, dove il banchiere avrebbe gradito non poco trasportarsi. A compito quasi svolto, giunta la knowledge fatidica del trasloco, chi più chi meno, tutti si voltarono dall’altra parte; qualcuno per invidia, altri per ritorsione, altri ancora per complesso d’inferiorità, uno in fondo perché stava bene dov’ period e non period poi così propenso a lasciare il posto. Ognuno nel timore che, libero Palazzo Chigi, ci sarebbero state le elezioni.

Il contrattempo avrebbe indispettito anche un santo e ora Draghi si trova alla porta, con il piattello in mano, i partiti che lo hanno accoltellato, a supplicarlo di salvargli loro la vita e non consegnare il Paese alla Meloni, che è la sola a essere sempre stata onesta con lui fin dal primo minuto, e che perciò lo ha rispettato più di tutti.
Anche Mattarella, che pure è il solo che Draghi accettò sul Colle come condizione per restare a Palazzo Chigi, glielo chiede dal posto che il premier ha sognato per sé. Poiché la politica è un intreccio di odi reciproci, non è dato sapere come finirà la storia. Perché la situazione si rappattumi infatti, non solo dev’ esserci il perdono di Draghi nei confronti del chief grillino (e un po’ del capo dello Stato), ma quest’ ultimo, per salvare se stesso e i grillini, dovrebbe tornare a Canossa dall’uomo che vede come colui che gli ha usurpato lo scranno e dovrebbe tendere la mano a Di Maio, che gli ha sfilato un terzo di partito, mandandolo sull’orlo di una crisi di nervi.

L’INCOGNITA – Quand’anche avvenisse il miracolo, c’è poi l’incognita Salvini, che dovrebbe concedere un’altra occasione a Conte a tre anni dal discorso in Senato successivo allo strappo del Papeete, quando l’allora premier sfogò tutta la sua rabbia verso il suo ex ministro dell’Interno, arrivando a umiliarlo pubblicamente. Ma, almeno a parole, il centrodestra vuole compatto le elezioni. Gli conviene, perché ha l’occasione unica di sfidare un avversario diviso giacché, se si vota a ottobre, difficilmente il Pd potrà presentarsi alleato con M5S, che ha appena accoltellato il premier; e già Di Maio ha preso a chiamare i grillini il “partito di Conte”, nella speranza che i vecchi elettori pentastellati si riferiscano a lui come erede di Casaleggio e non all’avvocato foggiano e portino acqua al campo ristretto di Letta e della sinistra. Ma anche il centrodestra è terreno di vendette e regolamenti di conti che potrebbero ostacolarne il cammino e la sua unità è minacciata dalla lotta perla management, nella quale nessuno dei contendenti ha risparmiato colpi bassi agli alleati. 



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